martedì 29 gennaio 2013

Io e Lola (pt. 2)

Per qualche giorno non ho avuto il tempo di pensarla: la manifestazione doveva essere organizzata, pubblicizzata, messa in atto, assaporata. Solo il giorno dopo quel fiume colorato di genti di tutto il mondo mi venne in mente lei. No, non era venuta. Non ce l'avevo fatta. Non so perché, decisi di ritornare da lei, da quel balconcino rialzato che da sulla strada, a farmi stuzzicare. Ci passai nel pomeriggio, quasi per caso. Era di strada e avevo del tempo. Non era stato difficile ricordare la strada. 
La sedia era vuota. 
La porta chiusa. 
Lei non c'era. 
Almeno in apparenza. 
Me ne andai.
Ritornai successivamente qualche giorno dopo, di mattina. La porta chiusa. La sedia fuori non c'era.  Capii che quello non era l'orario adatto. Iniziavo, inconsciamente,  a prendere familiarità con quella vita, quell'esistenza.
La terza volta che tornai, nel pomeriggio dello stesso giorno, la porta era ancora chiusa, ma la sedia era fuori. Mi chiesi se era il caso di bussare. "E se poi è con un cliente?" pensai. Niente da fare, sarei ritornata.
La quarta volta finalmente la trovai fuori, nel tardo pomeriggio. 
La porta di casa era chiusa, la sedia fuori e lei era all'impiedi. Indossava una minigonna nera, delle calze a rete e stivaloni col tacco alto, un top di merletto sotto una giacca di pelle faceva intravedere il reggiseno rosso. Stesso trucco pensate del nostro primo incontro. Questa volta i capelli biondi, però, erano legati. All'impiedi, su quel balconcino, vidi per la prima volta quel corpo nella sua interezza: i fianchi non erano quelli d'una donna, non ancora, si capiva; i seni erano chiaramente artificiali.

Mi avvicinai. Mi presentai. Tentai di farle ricordare chi fossi, del volantino, la manifestazione.
"Bella, sai quanta gente vedo e incontro ogni giorno?!" Non era particolamente di buon umore quel giorno. Infastidita si volta dall'altro lato. 
Non demordo. Non dopo averla cercata così a lungo! 
Le racconto del piccolo botta e risposta sulla mia femminilità...e sulla sua. 
Si rigira, sorride. 
Si ricorda. 
Diventa più affabile, quasi cordiale. Che le faccia davvero piacere vedermi? Perché poi?
Chiacchieriamo. Le racconto della manifestazione. Lei non sembra particolarmente interessata. Le dico che avrei voluto vederla quel giorno, che si sarebbe anche divertita.
"Oggi sei più carina dell'altra volta" mi dice sorridendo, sedendosi sulla sua sedia di legno, come se non avessi parlato di tutt'altro negli ultimi minuti. Eccola, di nuovo. Con le gambe incrociate ignora quel che dico, mi squadra, da testa a piedi. "L'altra volta ero in giro da tutto il giorno, a volantinare." Le spiego che avevo avuto molto da fare, con la manifestazione e tutto. Adesso mi ero ripresa, riposata. Avevo un pò di tempo per preoccuparmi del mio aspetto.
"Una donna deve sempre trovare il tempo per sé, tessoro. Scommetto che non ce l'hai il ragazzo eh?!". Le dico di no, che in effetti non l'avevo. Ma ero giovane, e poi non mi interessava in quel momento avere un ragazzo. 
"Ah! Allora ti piacciono le ragazze?" Non capivo se era seria o no. Le risposi che no, mi piacciano i ragazzi, che sono etero.
"Bè" taglia corto "se ti conci così uno non lo troverai mai!" e ride.
Mi incazzo, di nuovo, con lei. Non solo una la cerca per giorni e lei non si fa trovare, non solo una ha voglia di farle compagnia, di conoscerla... e lei che fa?! Ti piglia in giro! 
Capisce che me la sono presa. Tenta di recuperare. 
"Comunque, oggi sei più carina" e sorride, bonariamente, come la volta precedente.
Scazzata la saluto, velocemente. Non ho più volgia di stare lì.
"Ehi, bella! Vienimi a trovare se vuoi. Io sono qui"
Le dico che, semmai avrò voglia di rivederla, lei almeno deve farsi trovare. Le dico che sono venuta tre volte di fila. Voglio farla sentire in colpa.
"Eh, piccola. Sono una donna in carriera io!" Ride e mi fa l'occhiolino.
So già che tornerò. E le i lo sa pure.
C'è qualcosa in lei che...

Quel giorno Lola, pur non conoscendomi, pur avendomi presa in giro, ha toccato dei punti delicati. 
Ma io non lo sapevo. Lo avrei scoperto qualche anno dopo.

venerdì 18 gennaio 2013

Io e Lola (pt.1)

La prima volta che ho incontrato Lola avevo 19 anni. Ero al primo anno di università e stavo facendo un volantinaggio in un quartiere popolare della mia città, invitando la gente ad una manifestazione antirazzista che si sarebbe tenuta qualche giorno dopo. Passai da un balconcino rialzato, che dava sulla strada, dove Lola era seduta su una sedia di legno. Aveva lunghi capelli biondi, un pò cotonati, e una fascia nera sulla testa. Il trucco era molto pesante e le labbra, carnose, rosso fuoco. Era vestita con una sorta di tubino nero, da cui spuntavano queste sottili ma forti gambe, con delle calze velate nere (un pò troppo leggere per il mese di marzo forse) e un tacco vertiginoso. Era a modo suo molto elegante con le gambe incrociate in bella mostra, con la coscia al vento e lo sguardo ammaliante.
Mi avvicinai a lei e le porsi il volantino, con il mio solito sorriso "da volantinaggio" dicendole di che si trattava. 
Che fosse una prostituta era chiaro. 
Chi era Lola davvero l'ho capito solo dopo che mi ha rivolto la parola.

"Dov'è che devo venire?!" col suo accento lanino americano e un fare malizioso. Era servita su un piatto d'argento.
"Ad un corteo antirazzista. Ci saranno dei ragazzi della comunità senegalese che suoneranno i loro strumenti durante il percorso: si ballerà durante tutto il corteo, sarà bello, colorato e allegro. Vogliamo abbattere i muri del razzismo a suon di tamburi e danze, disturbare i facili pensieri dei benpensanti, travolgerli con nostro calore uma..."
"Non vedo perché dovrei venirci, cara."
Infastidita, quasi contrariata, le chiedo se sa gli utlimi avvenimenti della città, con una delle vie più trafficate militarizzata, sequetri irregolari di merci degli ambulanti, arresti per clandestinità, rimpatri..."ma poi scusa, pure tu non sei un immigrata?!"
"Gioia, lo sai che sei molto poco femminile? Poi vestita così..." mi dice, divertita dalla mia reazione, vogliosa
di stuzzicarmi.
Per un attimo guardo le mie Converse impolverate, i miei jeans belli larghi, non ho la borsa, ho tutto quello che mi serve dentro le tasche del giubbotto, poco sagomato, chiaramente nero. Forse quel giorno non mi ero nemmeno truccata. Ah no. Avevo il mascara. 
Ancora più contrariata, anzi proprio incazzata da quell'indifferenza ingiustificata, dalla poca esaltazione per un'iniziativa così bella, penso che è proprio il colmo sentirmi dire una cosa del genere da una come lei. Glielo dico.
Se la ride, di gusto.
"Sei quasi carina quando sei incazzata, tessoro"
Ma renditi conto, penso. La guardo ridere con quelle belle labbra rosse. Il suo sguardo è quasi materno mentre mi guarda corrucciata.
"Adesso vattene, devo lavorare" e allarga le cambe in modo provocatorio, prima di incrociarle nuovamente. "Torna se vuoi, con un tuo amico... o se vuoi, anche tu: non ho pregiudizi". Mi schiaccia l'occhiolino e ride di nuovo, di gusto.
Okei, le dico. Dimmi almeno il tuo nome però.
"Lola, sono Lola. Vai via però! Mi fai perdere clienti!" mi dice spazientita, ormai senza sorridere più. Guarda un uomo di mezza età che mi è appena passato dietro, guardandola. Ci supera, svolta l'angolo. E' andato. Ma tornerà.
La saluto, velocemente. 
Svolto l'angolo anche io, che non so che pensare. 

Questo è stato il mio primo incontro con Lola, latino americana, prostituta di professione, transessuale.

martedì 15 gennaio 2013

Libertaria prigionia

Ciao Peppe. Non mi conosci, così come io non conosco te, se non per qualche mezza iniziativa organizzata durante uno dei tanti autunni caldi degli ultimi anni. Seppure non ti conosco ieri ho passato tutta la mia giornata, dalle 8.00 del mattino fino a tardo pomeriggio, in una striminzita aula di tribunale. Seppure tu non mi conosci so che ti aspettavi che io ieri fossi lì, accanto a te, pronta ad alzare il pugno appena la porta dell'aula si è aperta facendoti entrare. Seppure non ci conosciamo, so che hai sentito il mio calore, la mia presenza.
Da mesi ti trovi, in assenza di giudizio, in una cella di massima sicurezza in un carcere a chilometri e chilometri di distanza dalla tua città, dalla tua famiglia, dalle tue compagne e compagni. Non vedi nessuno all'infuori di tua madre, una volta al mese, e del tuo compagno di cella (si, che fortuna dai! Solo un compagno di cella, non troppo diverso da te). Non vedi nè senti da mesi la tua ragazza, l'unico contatto esterno sono le tante lettere di amici e compagni che tentano, mezzo carta, di farti arrivare tutto il calore dei nostri corpi e dei nostri cuori, per riempire la tua cella e farti sentire meno solo, meno schiacciato.
Difficile pensarti così, come tanti altri, nel buio di una cella, a leggere e scrivere, a pagare per un reato che non esiste, solo perché da anni militi politicamente come anarchico. 
Difficile pensarti così... difficile vederti come ieri ti abbiamo visto: ammanettato, scortato da quattro poliziotti in borghese, costretto a sedere su una sedia accanto al giudice, con la scorta intorno a te. Ti abbiamo visto solo pochi sencodi, all'entrata e all'uscita dall'aula. Nemmeno il pugno ti hanno fatto alzare. I nostri occhi si sono incrociati, annuivi e ringraziavi durante i nostri cori "delle galere solo macerie!", "peppe libero, tutti liberi!". Ti abbiamo visto pochi secondi, tra i nostri applausi e slogan, attraversando il muro di digos che ci divideva, ci bloccava, tutti in bella mostra, con le loro videocamere non autorizzate puntate contro. Ti abbiamo visto pochi secondi a fine mattinata e siamo rimasti fino a sera per rivederti un'altra manciata di secondi, durante la lettura della sentenza. Nonostante avevi espresso la volontà di ritornare in aula per la lettura, chiaramente, ci hanno detto che avevi dato disposizione di tornare in cella. Dunque di nuovo lontano. Dove sei non lo sappiamo, se nelle segrete del tribunale o in aeroporto. L'unica cosa che sappiamo è che ti hanno impedito altri pochi attimi di socialità, contatto umano, solidarietà. E questo basta per aumentare la mia incazzatura, il mio disgusto, il mio senso d'impotenza e la mia vicinanza a te, sconosciuto, che sei tanto simile a me. Impossibile spiegare come e perché ma più ti rivedo con quelle manette più avrei voluto togliertele e abbracciarti. 
Seppure non ci conosciamo, seppure io ho conosciuto il tuo nome solo attraverso i giornali e i comunicati di solidarietà io sento che un pezzo di me è lì, con te, ammanettato e in galera; così come so che un pezzo di te è con me, fuori dal carcere, col vento in faccia e il pugno alzato. Non so spiegare i come e i perché, ma è così. E basta.

venerdì 11 gennaio 2013

Una macchina d'amore...o un amore di macchina?

Sono stati i brividi, le gioie delle prime libertà, le lacrime, le prime canne per strada, i dolori nel vedere il risultato dell'ingiustizia sociale, i discorsi sul mondo, la filosofia e la politica davanti a una bottiglia di vino mezza vuota che mi hanno spinta all'azione politica militante. Le emozioni, tutte belle seppur brutte, sono state a convincermi che qualcosa dovevo pensare, qualcosa dovevo fare, qualcosa dovevo mettere in gioco. Su tutte l'amore, incondizionato, ostinato e presuntuoso per tutti i Sud del mondo, per tutti i sottoproletari, gli emarginati e gli sfruttati del mondo... l'amore, appunto, mi ha ispirata, guidata e attraversata, cellula dopo cellula, e mi ha condotta di assemblea in assemblea, da collettivo a collettivo, da manifestazione a manifestazione, portando a mettere in gioco tutto di me stessa. Tutto. E mentre camminavo, correvo, tra assemblee, cortei, assemblee, manifestazioni, assemblee e ancora assemblee, gli sgambetti, gli schiaffi e i calci della realtà fatta di celerini, denuncie, borghesia e benpensanti, "compagne e compagni" vetero e "primedonne" logorati dai loro insuccessi passati, per niente disposti a fare autocritica, conservatori della rivoluzione, attaccati al contropotere nemico del potere.
Da assemblea ad assemblea, da corteo a corteo sono diventata una macchina di militanza politica, incallita, dura: non più i sorrisi dell'ingenuità, non più gli sguardi dell'idea di pace, giustizia sociale e libertà,non più risate e colori, non più nemici lontani ma sempre più vicini e impensabili, non più lacrime di pietà o dolore. Solo espressioni corrucciate dalla concentrazione e il disappunto, le spalle e lo stomaco appesanti dai contesti difficili, dalla volontà bloccata dalle contingenze, la freddezza dell'assassino, del mostro. E la rabbia. Sempre di più. Che diventa nervosismo. Che diventa un muro fatto di ira e rancori, di dolori e illusioni spezzate. Ma si sa: a te, militante, in prima linea, non è richiesta tenerezza, pietà, tristezza, felicità. Solo freddezza, precizione millimetrica, concretezza, impassibilità: il lavoro deve essere finito, bene, pulito.
Sono diventata il Gobbo di Notre Dame, rinchiuso su nel campanile, solo, coi suoi difetti e le sue debolezze, con un volto e delle mani invisibili al mondo, all'amore, al sole.
Ebbene caro mondo, cara politica, care compagne e cari compagni... io voglio amare e voglio essere amata, voglio ridere, voglio piangere davanti alle ingiustizie, voglio ridere delle piccole vittorie, voglio assaporarle. Care compagne e cari compagni, voglio essere libera e colorata.
Soprattutto, voglio essere orgogliasamente debole, fragile, piena di difetti e perplessità. Perché io, sfegatata anticapitalista e antifascista, è propio la debolezza e l'imperfezione umana voglio difendere, che voglio amare e che amo. Voglio amare la politica delle idee ma, soprattutto,degli uomini e delle donne della storia, del presente.
Io non voglio fare parte di una realtà violenta e disumana, calcolatrice e fredda. Io la realtà non la voglio abbattere con le sue stesse armi. L'unico odio che voglio provare è quello che nasce dall'amore per i Sud del mondo,  per tutti i sottoproletari, gli emarginati e gli sfruttati del mondo.  

venerdì 4 gennaio 2013

210 giorni all'esecuzione

Il grande Jack è ancora vivo, fratelli. E questa è Alcatraz, l'unica vera radio libera italiana: quella che sta in galera. E tu come te la passi, amico? Che cos'è che non va? Avanti, coraggio, rispondi: che cos'è che non va? Perché fai quella faccia? E' il grande Jack che deve salire sulla sedia elettrica, non te. Allora? Che cos'è che non va? Non avrai paura della libertà, per caso? Pensa, puoi fare quello che vuoi. Perché non parti? Parti. Vattene. E dove vai? Sentiamo, dove fuggi, fratello? Ai Caraibi? In Kenia? E tu, sorellina, dove vai? Costarica? Tokyo? Honolulu? Parigi? New York? Quali soldi, quali impegni, quale lavoro, balle. Non mi fotti. Potresti partire benissimo. Lo so io perché non vai. Perché l'hai già fatto. Ci hai già provato e non è successo nulla. Quali avventure? Nulla. Quante stronzate hai raccontato al ritorno, vero? Invece, ogni città uguale all'altra, tutte fottutamente identiche, e mai nessuno che ti ha rivolto la parola. Tu pure: zitto come un impiccato. Avresti voluto urlare: "Sono qui". Ti vergognavi. Bel viaggetto organizzato. Sei fritto. Condannato. Il mondo non è quello che sognavi, se ne frega di te. Nessuno ti si fila per come sei, tutto quello che gli interessa è "quanto hai". Paga, ragazzo, paga. E quando hai finito i soldi, alza i tacchi. Non c'era bisogno di fare tanti viaggi. Sei ad Alcatraz. Sono anni che viviamo nello stesso buco senza guardarci in faccia. Ma adesso è meglio che ti dai una mossa. Il tempo passa. L'esecuzione si avvicina. Stringimi la mano. Coraggio, ti tengo. Nuota controcorrente, fottitene, lascia che ridano. Guardali. Se riesci a vederli dietro le loro sbarre, ce l'hai fatta, ragazzo. E' andata. Sei libero, sei fuori, sei nato.

lunedì 31 dicembre 2012

l'innominata


Driiiin! Driiiiin!
"Pronto?"
"Ehi ciao! Sono tornato a casa per le vacanze di natale e organizzo la solita cena col vecchio gruppo di scuola. E' per dopodomani. Non puoi mancare! Ci sei vero?!"
Eccola. La temibile "rimpatriata".  E ti senti fortunata che non si tratti dell'intera classe (32 persone, santo iddio!) ma solo del "gruppo simpatia".
"Faccio in modo di esserci dai!"
"E non fare quella sempre super impegnata! E' bello! Ci siamo propio tutti!"
"E sia! Ci vediamo dopodomani sera!"
 Maledetti amici studenti fuori sede: tornano si e no due volte l'anno, con i giorni contati, a stento riesci a vederli per un caffè e due chiacchere e loro, che fanno?! Decidono di utilizzare quel poco tempo che hanno a disposizione per una cena fra vecchi compagni di classe?! Ehi, genio! Non ti è mai venuto in mente che se, in quattro anni, queste persone le sento e vedo solo quando torni tu in città significa che, fondamentalmente... non le voglio frequentare?!

Sorrisi, strette di mano, baci, abbracci. Solite domande: "come stai", "come ti vanno le cose?", "all'università? quando ti laurei?"; solite risposte: "bene grazie", "non posso lamentarmi", "tutto vecchio, propio uno schifo; eh, ma queste domande biricchine! Tu quando ti laurei?". Tiè! Eccheccazzo!

Si insomma, le cene coi vecchi compagni di classe in cui tutto sembra andare bene a tutti: a giro ci si raccontano le novità, i successi, le soddisfazioni. Piovono lauree, specialistiche iniziate, relazioni che ancora reggono, dopo anni, convivenze, riconoscimenti, lavori. Ti senti una merda. Tutti stanno lì, a spiattelarti le loro fortune senza ritegno e tu, che già ti senti uno schifo di tuo nella vita di tutti i giorni, ti senti una merda. Anzi, una super merda!
Poi arriva il tuo turno. Fai un veloce bilancio. Niente laurea, zero progetti futuri (ecco perché niente laurea: dopo che farei?!), niente uomo/convivente, vita sessuale zero. Insomma, il totale è in negativo. Lì puoi fare due cose: o dire la verità e accollarti gli sguardi compassionevoli di chi, nella vita, ha più fortuna e se la cava meglio di te, o dire la verità... a modo tuo.
"E io... che vi devo dire?! Non mi sono ancora laureata, ma ci sono vicina. Ho fatto dei lavoretti che attualmente ho messo da parte per dedicarmi allo studio. Per il post-laurea, sto valutando delle alternative diverse. E si, sono felicemente single (ancora): non ho voglia di distrazioni, devo concentrarmi su me stessa, su quello che voglio. Ma si! Qualche storiella ce l'ho ogni tanto eh! Non sono mica una monaca di clausura! Ahahah!".
Visto?! La verità... a modo mio.
E intanto l'autostima si è sotterrata.

Finito lo strazio (non prima di aver tirato fuori la carrellata dei ricordi del liceo, ovviamente) ti infili in macchina e, guidando verso casa, ti riprometti che la prossima volta non ti farai trovare impreparata. Ti prometti che, la prossima volta, racconterai la verità, davvero: che ti sarai laureata, che avrai scelto come continuare i tuoi studi, che hai un ragazzo meraviglioso che scopa da dio e che ti senti davvero bene.
Neanche il tempo di assimilire bene questo stimolo che... ti ricordi che era la stessa cosa che ti eri promessa l'anno precedente, all'ultima cena-rimpatriata.
L'autostima, a quel punto, s'è data per dispersa.

In sintesi: darsi per malati alle cene di classe, a meno che non sei uno di quei bastardi a cui la ruota della fortuna gira per il verso giusto.

domenica 30 dicembre 2012

Per Damini, Sen... e tutte "le altre".


siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo. È la qualità più bella di un rivoluzionario
[E. Guevara]


Qualche giorno fa è morta la ragazza indiana stuprata da sei uomini, per ore, su un autobus. È morta dopo settimane di agonia, mentre le donne di tutta l'India si riversavano nelle strade, pregando, urlando, piangendo la loro solidarietà, la loro rabbia, la loro voglia di non essere più vittime di uomini-belve e di un sistema loro complice. Mentre Damini era agonizzante sul letto di un'ospedale lontano, le donne indiane prendevano forza e coraggio mettendosi in gioco, come in uno strano gioco di scambio di energie vitali: una vita muore lentamente mentre lentamente la coscienza civile nasce, cresce e si ribella.
Damini, Nirbhaya, Amanat: sono degli splendidi pseudonimi scelti per l'ennesima giovane martire di un sistema complice e colpevole. “Senza paura”, “fiduciosa”, “leale”, “coraggiosa”.
Non starò qui a sciorinare le statistiche degli stupri commessi in India nell'ultimo anno, né dei suicidi delle donne che hanno subito quegli stupri.
Ricorderò solo quell'altra ragazza stuprata in un altra città indiana, proprio mentre Damini era in ospedale, suicidatasi perché, dopo aver deciso di denunciare gli stupratori (si, anche in questo caso si tratta di uno stupro di gruppo), si era sentita dire da un poliziotto che era meglio se ritirava tutto e si sposava uno degli aggressori. Questo basta più di ogni numero, statistica o percentuale.
È in questa circostanza che mi è balenato in mente il titolo di un articolo letto qualche tempo fa “Ha ancora senso essere femministe”. Ironia della sorte, Sen, la ragazza che ha scritto questo articolo, l'ha uccisa il suo ragazzo, un anno fa.
Si, ha senso essere femministe per Stefania; per il prete che scrive che siamo noi a provocare gli stupri; per quelli che non la pensano come lui ma, soprattutto, per quelli che la pensano come lui. Su tutti, però, ha senso essere femministe per quelle donne indiane, africane e latino americane, le donne che vivono nelle periferie del mondo e che, purtroppo, ancora non hanno la voce che abbiamo noi. Perché non tutte quelle uccise, stuprate, sfruttate, maltrattate e oppresse riescono ad avere un nome nelle mente di tutte noi come quello di Stefania Noce o Damini. Perché in alcune (sempre troppe) parti del mondo uno stupro non è stupro, un abuso non è abuso, oppressione non è oppressione: tutto questo è normalità, quotidianità, tradizione. È per queste donne rimaste nell'anonimato delle periferia e di una malata "normalità" che per me ha ancora senso essere femminista. È per loro, per noi, che mi ritengo ancora femminista e non una che “segue una moda” o “una nostalgica”, come alcuni mi hanno bollata in passato.
Di strada ce n'è ancora molto da fare. Abbiamo appena iniziato.