“siate sempre capaci di sentire nel
più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in
qualunque parte del mondo. È la qualità più bella di un
rivoluzionario”
[E. Guevara]
Qualche giorno fa è morta la ragazza
indiana stuprata da sei uomini, per ore, su un autobus. È morta dopo
settimane di agonia, mentre le donne di tutta l'India si riversavano
nelle strade, pregando, urlando, piangendo la loro solidarietà, la
loro rabbia, la loro voglia di non essere più vittime di
uomini-belve e di un sistema loro complice. Mentre Damini era
agonizzante sul letto di un'ospedale lontano, le donne indiane
prendevano forza e coraggio mettendosi in gioco, come in uno strano
gioco di scambio di energie vitali: una vita muore lentamente mentre
lentamente la coscienza civile nasce, cresce e si ribella.
Damini, Nirbhaya, Amanat: sono degli
splendidi pseudonimi scelti per l'ennesima giovane martire di un
sistema complice e colpevole. “Senza paura”, “fiduciosa”,
“leale”, “coraggiosa”.
Non starò qui a sciorinare le
statistiche degli stupri commessi in India nell'ultimo anno, né dei
suicidi delle donne che hanno subito quegli stupri.
Ricorderò solo quell'altra ragazza
stuprata in un altra città indiana, proprio mentre Damini era in
ospedale, suicidatasi perché, dopo aver deciso di denunciare gli
stupratori (si, anche in questo caso si tratta di uno stupro di
gruppo), si era sentita dire da un poliziotto che era meglio se
ritirava tutto e si sposava uno degli aggressori. Questo basta più
di ogni numero, statistica o percentuale.
È in questa circostanza che mi è
balenato in mente il titolo di un articolo letto qualche tempo fa “Ha
ancora senso essere femministe”. Ironia della sorte, Sen, la
ragazza che ha scritto questo articolo, l'ha uccisa il suo ragazzo,
un anno fa.
Si, ha senso essere femministe per
Stefania; per il prete che scrive che siamo noi a provocare gli
stupri; per quelli che non la pensano come lui ma, soprattutto, per
quelli che la pensano come lui. Su tutti, però, ha senso essere
femministe per quelle donne indiane, africane e latino americane, le
donne che vivono nelle periferie del mondo e che, purtroppo, ancora
non hanno la voce che abbiamo noi. Perché non tutte quelle uccise,
stuprate, sfruttate, maltrattate e oppresse riescono ad avere un nome
nelle mente di tutte noi come quello di Stefania Noce o Damini. Perché in alcune (sempre troppe) parti del mondo uno stupro non è stupro, un abuso non è abuso, oppressione non è oppressione: tutto questo è normalità, quotidianità, tradizione. È
per queste donne rimaste nell'anonimato delle periferia e di una malata "normalità" che per me ha ancora senso essere
femminista. È per loro, per noi, che mi ritengo ancora femminista e
non una che “segue una moda” o “una nostalgica”, come alcuni
mi hanno bollata in passato.
Di strada ce n'è ancora molto da fare. Abbiamo appena iniziato.
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